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Ci vuole speranza per morire (in ricordo di Giancarlo)

Caterina Serra, autrice del libro edito da Einaudi “TILT” sulla MCS

“Cosa vuoi sapere? Che è finito tutto? Ogni tanto mi viene voglia di gridare. Gridare e basta. Non ho molto da dirti, mi è passata la voglia di scherzare, non mi va più, e neanche di parlare. Mi dispiace, ormai ho poca voglia di tutto. Vorrei solo gridare, mettermi lì in mezzo a quel campo e gridare.”
A volte la scrittura è misteriosa. Chi scrive crede di avere il controllo totale sulle parole, crede che rimandino solo a ciò per cui le ha scelte, come se stringesse con loro un patto di ubbidienza.
Quando ho incontrato Giancarlo mi ha detto proprio così, Vorrei solo gridare, mettermi lì, in mezzo a quel campo, e gridare. Era un pomeriggio di primavera, me lo ricordo bene, quando sono salita sulla sua auto, una vecchia mercedes nera con i sedili di pelle slavata e i finestrini abbassati. Siamo rimasti così, uno accanto all’altra, guardando la campagna davanti a noi, il tempo esatto della sua sopportazione. La vicinanza non è sempre un bene, aveva scoperto.
Mi aveva raccontato di come si era ammalato di quella strana malattia che chiamano MCS, Sensibilità chimica multipla, di come aveva cominciato a mancargli l’aria tutte le volte che si trovava chiuso in una stanza, o camminava per la strada, e di come il naso lo mettesse in guardia ogni momento, intercettando un profumo, una vernice, un conservante o un pesticida, una qualche sostanza chimica nascosta nelle cose, in tutte le cose, diceva. Mangiava solo banane, ultimamente, Più evito meglio sto, continuava a ripetere.
Vorrei solo gridare, aveva detto. E raccontando la sua storia, un anno fa, avevo pensato di conservare quel verbo che per me voleva dire una voce lanciata nell’aria, il verso di un animale ferito, un suono disturbante, disperato.
E invece niente, nessuna voce, nessun grido. Un colpo di pistola.
La mattina del 2 marzo scorso Giancarlo Guiaro, 55 anni, è entrato nello studio del suo medico, si è chiuso dentro il bagno e si è sparato un colpo. Si muore una volta sola ma ci sono molti modi di morire, direbbe Joseph Conrad.
Il suicidio è uno di questi. C’è chi prima di suicidarsi lascia qualcosa di scritto per spiegare le ragioni del proprio gesto. C’è chi lo fa per una ragione precisa, chi per un’infinità di ragioni. C’è chi lo fa senza dire una parola, magari per qualcosa che sa solo lui/lei, chi lo fa lentamente, consumandosi un po’ ogni giorno, o improvvisamente, di punto in bianco, trovando buona una finestra, una curva della strada, un’onda più giusta di un’altra. E c’è chi lo fa architettando tutto, immaginando la scena nei minimi dettagli, studiando bene il luogo, la circostanza, e il come, armi di vario genere, scelte con cura, ché a volte la vita si ostina.
Giancarlo ha scelto una 44 magnum. La stessa che in un film del 1973 Clint Eastwood, nei panni dell’ispettore Callaghan, impugna contro un tipo speciale di criminali, colleghi poliziotti che anziché difendere i diritti dei cittadini, si mettono a sparare contro i malviventi. Come dire, a volte il sistema è così impegnato a difendersi da se stesso che si dimentica del motivo per cui è stato creato. E forse Giancarlo, scegliendo un luogo preciso, lo studio del proprio medico, voleva far tornare un altro sistema, quello della cura, al proprio scopo originario. Lo studio di un medico è un luogo dove i corpi, che non si sa cosa abbiano, si affidano alle mani di qualcun altro, un luogo in cui si va perché si pensa che le malattie si possano anche curare, si possano perfino guarire, i dottori servono a questo. Un luogo preciso: un luogo della parola, e dell’ascolto. Un medico dovrebbe essere innanzitutto qualcuno che si interroga, che prova a capire, che usa gli occhi, le mani e il cuore, sì, anche il cuore.
La MCS è una malattia misteriosa, beffarda, difficile da diagnosticare, perché le cause sono così tante e così ben nascoste, e così nuove, anche, che un medico si spaventa, o si rifiuta di spaventarsi e archivia sotto una qualche formula conosciuta qualcosa di cui non sa abbastanza. È una malattia scomoda, implica un cambiamento di prospettiva da parte di chi ne soffre ma anche da parte di chi impara a conoscere cosa la può provocare, comporta una attenzione quotidiana a ciò che può avere effetti sulla salute nonostante sia apparentemente innocuo, sia di uso comune, e venga venduto, pubblicizzato, consigliato, e alla fine desiderato come qualcosa di indispensabile alla propria vita. E ancora, è una malattia diseconomica, porta a non consumare quasi nulla, niente farmaci, niente uso di nuovissimi strumenti tecnologici, di nuovi artificialissimi alimenti, di indispensabili quanto inquinanti mezzi di trasporto. E niente luoghi di lavoro malsani. Non sembra poi così assurdo che solo pochi paesi nel mondo abbiano voluto riconoscere questa malattia, scoprendo magari un qualche mercato anche per chi è costretto a fare a meno di tutto.
Essere malati di una malattia non riconosciuta significa non essere visti, non essere creduti, non avere il diritto di essere assistiti. Non riconoscere una malattia significa non riconoscere il diritto al rimborso delle spese mediche, il diritto di potersi recare in un ospedale attrezzato-bonificato, di poter parlare con un medico che non scuota la testa sostenendo l’improbabilità delle cause, di poter sentirsi creduti, e capiti e consolati e curati. Di poter vivere senza morire di solitudine, di rabbia, di fatica.
Non posso non vedere nel suicidio di Giancarlo un modo per raccontare di sé, e del mondo in cui viveva e viviamo, a qualcuno che non sa, o si rifiuta di sapere. Un atto simbolico e politico. Un atto di sfiducia nel presente e, tuttavia, un atto di fiducia nel futuro. Come se il presente tendesse a tenere tutto troppo schiacciato, troppo ravvicinato e non riuscisse a vedere ciò che succede mentre succede. Come se il futuro, invece, potesse assumere la giusta distanza, e sapesse distinguere, e riuscisse a vedere meglio le cose. Come se un futuro medico, un futuro paese, una futura umanità potesse sapere ciò che al momento sembra ignorare.
Per questo, forse, il futuro è sempre un po’ radicato nel presente. Pochi giorni dopo la sua morte, il 25 marzo, l’EPA, l’Agenzia americana per la protezione dell’ambiente, ha varato un piano strategico per la valutazione delle sostanze tossiche (U.S. Environmental Protection Agency’s Strategic Plan for Evaluating the Toxicity of Chemicals) con lo scopo di definire un nuovo approccio scientifico ai rischi di un uso indiscriminato di migliaia di sostanze chimiche. Un piano che prevede di adottare per i test di tossicità i metodi in uso nella biologia molecolare, nella genomica e nelle scienze computazionali, per meglio capire gli effetti che tali sostanze possono avere o già hanno sulla salute di adulti e bambini (è ormai accertato che i bambini hanno reazioni diverse e più immediate alla tossicità dell’ambiente).
Giancarlo era malato ma non era in fin di vita, non stava morendo, non diversamente da ciascuno di noi. Non si è ucciso perché non aveva più alcuna speranza di vivere, ma perché non aveva alcuna speranza di essere curato, di essere sostenuto, anche economicamente, e quindi aiutato a trovare un modo per vivere meglio: malato, sì, ma con qualche possibilità di essere anche felice. Come tutti.
Se ripenso alle parole di Giancarlo, Vorrei solo gridare, gridare e basta, e al mio modo di fissarle sulla carta, mi accorgo che le parole, disubbidienti alle finalità di chi scrive, possono invece rivelare l’intenzione, seppure inconscia, di chi le pronuncia. Non so cosa abbia veramente spinto Giancarlo a chiudersi nel bagno di uno studio medico, impugnare la sua 44 magnum un giorno di primavera e uccidersi. Ma ho la netta sensazione che sia stato un altro modo di correre in mezzo a un campo e mettersi a gridare.

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